ecco quanto raccolto fino ad ora (questa pagina e le foto sono condivise in modo che solo chi conosce l’indirizzo corretto possa vederle):

Marina

PALLONCINI COLORATI

Come ogni anno, preparandosi a partire, ognuno di noi cercava di raccogliere oggetti utili, doni da portare alle varie scuole di Haubi. Talvolta erano magliette (offerte ad esempio dalla banca di Monteriggioni), materiale sportivo (dato dal CONI), materiale scolastico (carte geografiche, cancelleria…) che, distribuito direttamente sul posto, faceva la gioia di alunni ed insegnanti.

Era veramente una festa arrivare a Kuuta, Soro, Kidulo, ed essere accolti da un numero incredibile di ragazzi che ci toglievano dalla spalle gli zaini appesantiti dai doni e ci accompagnavano alle loro scuole con canti, danze e ritmo di tamburi.

Nel 2006 avemmo l’idea di portare un piccolo regalo per ogni bambino e così… ordinammo ben 3000 palloncini, si proprio quelli da gonfiare!!! Non risultò una pensata felice perché il pacco era pesantissimo e non fu facile sistemarlo nelle valigie dei vari componenti del gruppo Rafiki che partivano…

Ma ricordo benissimo la gioia negli occhi di quei bimbi al momento della distribuzione… mentre i palloncini prendevano forma, cresceva il loro stupore e il loro entusiasmo… (mimi mimi… anche a me, anche a me…) e forte era la delusione quando qualcuno scoppiava.

Per molti giorni il cielo di Haubi fu rallegrato da mille colori e da ogni angolo, al passaggio dei “muzungu” si sentivano festosi “jambo”, “asante”, ciao!!!

Tutti ci correvano incontro tenendo tra le mani quei “preziosi” oggetti che riuscivano a lungo a rallegrare le loro giornate.

le foto da scegliere

 

Mirella

LA FESTA DELL’ACCOGLIENZA

Dopo aver seguito per tanti anni l’esperienza del mio cugino missionario in Africa, finalmente nel 2005 ho toccato la terra della Tanzania e sono arrivata ad Haubi. La vita nel villaggio, anche se dura, mi è sembrata subito affascinante soprattutto per la presenza di tante persone, adulti, anziani, bambini, sempre affabili e sorridenti.

Il sabato successivo al nostro arrivo ci fu la festa dell’accoglienza: fin dal primo mattino un gran via vai di persone: fu uccisa una capra, preparato il pilau, la polenta bianca, il pombe, distesi a terra coloratissimi mkeka.

Ognuno lavorava, parlava animatamente; al pranzo partecipò tutta la comunità del villaggio.

Ma il momento più toccante fu quando, seduti a terra, noi ospiti ricevemmo dagli anziani il “battesimo” in kiranghi. Ciascuno di noi ebbe un nome legato al prorpio carattere e un bracciale in pelle di capra da portare come ricordo di questo rito del tutto particolare. Fu così che imparammo il significato di nomi come kijaji, mchumi,kimbue, kija, mbeyu, kichiku, muassu, iduri, ecc.. che continuiamo a tenere nel tempo.

Al termine, danze tipiche, accompagnate dai bambini e da canti conclusero, l’emozionante giornata che porterò sempre nel cuore.

le foto da scegliere

 

Duccio

Mi ricordo di una serata, dopo una splendida festa con balli ,suonatori di chitarra a quattro corde e fiumi di “pombe”, finita seduti ad ascoltare baba che raccontava le storie dei Warangi (badate bene storie, non miti!) perché venissero tramandate come avveniva da chissà quante generazioni… mi ricordo la storia delle persone in fondo al lago, della strega nella montagna e altre ancora, tutte tramandate perché fossero chiari per esempio i rischi di andare la notte a pescare o di avventurarsi sulla montagna senza conoscere la strada.

Mi ricordo come la semplicità di quel momento mi facesse sentire parte della famiglia: io e Maria Nella, seduti come due bambini al lume della lampada a olio, ad ascoltare babbo che raccontava le storie della tribù, perché come gli altri prima di noi fossimo pronti ad affrontare la vita e perché anche noi, come gli altri prima di noi, facessimo la nostra parte per tramandare questo sapere ai bambini delle prossime generazioni.

Poco importa se baba raccontasse in kirangi e se noi dovessimo strappare scampoli di traduzione da Mwinjo o da Msami quando, incautamente, ci passavano a tiro: il momento era quello, e la sensazione è ancora impressa nel mio cuore… noi siamo una famiglia.

Ero partito spinto da un’idea romantica dell’Africa ma ho incontrato una realtà che, per quanto più dura, è incredibilmente più bella.

le foto da scegliere

 

Duccio bis

A casa ognuno ha il suo compito, e tutti i giorni a qualcuno tocca di andare a prendere l’acqua al pozzo per lavarsi e per cucinare.

La prima volta mi avventurai in cerca del pozzo (le indicazioni erano sul tipo “è di là, tanto lo trovi…”) voglioso di provare a portare il secchio sulla testa.. da buon africano.

Dopo i primi metri lungo uno dei tanti sentieri che portano al pozzo cominciai ad essere avvistato da un numero imprecisato di risolini nascosti, che piano piano si rivelarono essere una quindicina di bambini di tutte le età, ognuno con un qualche tipo di recipiente di tutte le fogge e dimensioni.

Scherzando con loro arrivai al pozzo dove preannunciati da un altro scoppio di risa trovai dei bambini che pompavano l’acqua saltellando su e giù per vincere la resistenza della pompa col loro “peso”.

Immediatamente cercarono di prendermi i secchi per sciacquarli e riempirli, ma io rifiutai fermamente, quasi offeso dal loro lavoro, convinto che i bambini dovessero giocare e studiare… di certo non lavorare al posto mio!

Guardandoli ridere e correre intorno, con il tempo mi sono accorto che in fondo per loro anche quello era gioco, era stare insieme agli altri bambini, era tempo che dedicavano a svolgere un compito per la famiglia ma era anche tempo per loro; in più ognuno aveva un recipiente adeguato, dal flacone da detersivo per i più piccoli al secchio da quindici litri portato sulla testa dai più grandi, per fare la loro parte per il bene della famiglia nel modo più adatto alla proprie capacità.

Andare al pozzo da allora mi è sempre piaciuto, per portare l’acqua alla mia famiglia e per poter finalmente tornare a giocare, bambino tra i bambini…. L’unico inconveniente è che non sono mai riuscito a tornare a casa senza rovesciarmi almeno metà secchio addosso!

devo scannerizzare le foto

 

Simona

Sono Mbeyu. Sono nata a Haubi, un villaggio nel nord della Tanzania, 42 anni e 27 giorni dopo la mia nascita. I miei genitori fin da subito, mi hanno presentato alla loro comunità e con il loro amore, il loro sostegno, il loro incitamento e le loro cure, sono cresciuta. A Haubi il lavoro non manca, ce n’è per tutti, grandi e piccoli, capaci e incapaci, volenterosi e bighelloni: devi solo rimboccarti le maniche! Così ho imparato da Gloria – 14 anni – le mie prime parole, da Agnese – 13 anni – a prendere l’acqua al pozzo, da Anna – 14 anni – a lavare il secchio per l’acqua con la sabbia e l’erba, da Misanya – 8 anni – a costruirmi un fischietto con una canna e un coltello, da Mbuva – 5 anni – a portare un bimbo di 1 anno legato con una stoffa sulle spalle, da Mbula e Kichico a cucinare con pazienza e amore, da Mwinjo a curare i bambini dalle malattie della pelle, da Mganga a impastare il cemento, da Teddy a pitturare una stanza senza gli attrezzi giusti, da Calista come si soffre in silenzio senza invidia ma continuando ad amare la vita.

E da tutti i miei compagni di scuola ho imparato i balli e i canti tanzaniani. Le cantavamo insieme mentre tornavamo a casa dopo la scuola o mentre andavamo a prendere l’acqua al pozzo o semplicemente per festeggiare nuovi “fratelli “ wasungu (=bianchi) arrivati dopo un lungo viaggio per portarci aiuti o anche affetto e partecipazione e per ricordarci che non siamo soli in qualsiasi parte del mondo.

Adesso sono tornata di nuovo ad essere Simona; Mbeyu si è assopita ma è vigile ed aspetta con ansia e trepidazione il giorno che tornerà dai suoi parenti e tanti amici tanzaniani per respirare di nuovo quell’aria così pulita, pura e semplice.

 

Simona2

…a Dar es Salam la grande accoglienza della famiglia e amici di Mwinjio ci ha prima sbalordito e poi contagiato: come se fossimo fratelli che da anni non si vedono, baci abbracci, saluti, canti, pacche sulle spalle e sorrisi….tanti sorrisi

L’Africa è calda ma il vero calore lo trasmettono gli africani con in primo piano un sorriso onnipresente.

Dar è una grande città, piena di oggetti che sembrano gli scarti degli europei: camion, auto, biciclette, carretti, city bus. Una strada mal asfaltata piena di dossi e buche che tutti cercano di evitare invadendo l’altra corsia e trovando la scusa per suonare il clacson (accessorio indispensabile nell’auto). Tutto è così caotico, confuso, sconclusionato…

Ma tutto ciò è annullato dal calore che ti avvolge: gli africani sono pronti a tutto per farti stare bene; ti proteggono come se tu fossi una cosa sacra, un bene inestimabile.

 

Simona3

VITA A HAUBI

La vita a Haubi non è semplicemente un tornare indietro nel tempo, ma è una cultura completamente opposta alla nostra. Tutto ciò che per noi ha valore, qui non ne possiede nessuno. Le cose frivole sono superflue, inutili; eppure finchè le abbiamo ci sembrano indispensabili

Quante volte ci diciamo di non essere attaccati alle frivolezze

Tante sono le cose belle in Africa: il paesaggio, la terra, gli alberi, il cielo, gli animali: ma la gente offusca tutto. Il calore che trasmette non ha niente di paragonabile a quello del sole, la luminosità, la gioia, la riconoscenza, l’amicizia, la fratellanza…tutte cose che noi abbiamo perse, qui ci sono, tanto in abbondanza.

 

Simona4

IL SACCO DI PATATE

E’ domenica e la domenica in Africa è sinonimo di mercato: dopo la Messa tutti al mercato, pieno di colori, di urla, di bambini – quelli non mancano mai! – di gente che vende e di gente che compra. C’è di tutto: animali vivi e morti, carne, spezie, ceste in vimini, catini colorati in plastica, piatti, vestiti, scarpe, dolcetti e salatini, canne da zucchero. In un lato del mercato accanto al boschetto, ci sono i muli che si sgranocchiano placidamente gli scarti delle canne da zucchero succhiate: sono in pausa, al calare della sera verranno ricaricati da ciò che non è stato venduto e da ciò che è stato comprato. Forse se hanno fortuna e il mercato è andato bene, faranno una sosta al “bar” di Haubi per una bevuta di pombe (naturalmente non loro, ma il loro padrone).

Anche noi ci fermiamo al mercato, dobbiamo comprare delle infradito per Kijaji e Mbeyu, le patate, i pomodori e il the.

Mama non vuole che andiamo con lei, le facciamo perdere l’affare perché i Kirangi quando vedono i musungu alzano il prezzo e la contrattazione diventa più lunga. Così noi restiamo accanto a far compagnia ai muli succhiando la nostra canna da zucchero che Mganga distribuisce generosamente a tutti dopo averla tagliata a piccoli tronchetti e pulita dalla corteccia. E inevitabile che si formi intorno a noi un cerchio di bambini che ci osservano curiosi e timorosi: appena uno di noi si volta per guardarli, scappano sorridendo con i loro denti bianchissimi che spiccano sulle loro facciotte nere. Ma appena torniamo alla nostra occupazione, subito si riassemblano. Allora decidiamo di giocare e al tre ci voltiamo tutti insieme e corriamo nel tentativo di prenderli, ma inevitabilmente sono più svelti di noi e restiamo con le loro ciabatte rattoppate o rotte, perse mentre scappavano via. Dopo averlo fatto un paio di volte, noi siamo già stanchi: ci sediamo in terra e proviamo anche noi a tagliare e pulire la canna da zucchero, ma siamo totalmente incapaci, al punto che uno fra i bambini vicino, mosso a compassione, si offre di farlo per noi. Tira fuori il suo coltello con una lama di almeno 20 centimetri e con destrezza spezzetta e pulisce la canna. Il minimo che si possa fare è distribuirla a quanti più bambini è possibile.

Finalmente torna mama e Mwinjio con la spesa fatta: non possediamo un mulo, così ce la dobbiamo portare a casa sulle spalle. Mama è vecchia e non la possiamo caricare, così Kichiko e Sware prendono i cesti e se li mettono in capo. Resta il sacco di patate che spetta a Agnesi: lo prende e con una mossa da veterana se lo piazza sulla testa. Traballa sotto il peso del sacco, ma una volta ristabilito l’equilibrio, procede. Per arrivare a casa dobbiamo fare 4 km a piedi e dopo un po’ mi vengono i rimorsi di coscienza e tento di togliere il sacco a Agnesi: naturalmente lei si ribella, ma io con il mio kiswhali biascicato le faccio capire che dobbiamo dividere il peso. Alla fine riesco a farmelo dare….accidenti quanto pesa!! Saranno almeno 20 kg!! Non provo nemmeno lontanamente a mettermelo sulla testa, so’ già che la mia schiena protesterebbe dopo appena due passi; così me lo carico sulla spalla..ma caspiterina! Dopo 5 passi tutto il mio corpo borbotta: le mani si atrofizzano, la schiena duole, il collo s’intirizzisce e ogni passo diventa un tormento. Provo a cambiare spalla, ma dopo poco di nuovo tutto si ribella. Mama, che come al solito vigila sui suoi figli, dice a Agnesi di riprendere il sacco e lei senza una piega se lo riprende. Di nuovo vacilla sotto il peso e adesso capisco cosa significa.

Mentre camminiamo la mia testa mi tormenta: non puoi permettere che una ragazzina di 11 anni porti per 4 km un simile peso! Ma non sei venuta per aiutare? Se non lo fai nelle piccole cose, allora è tutto inutile.

Con uno scatto di orgoglio, riaffianco Agnesi e di nuovo le tolgo le patate: mentre me le ricarico sulla spalla ordino al mio corpo di non brontolare troppo, tanto, o con le buone o con le cattive le patate a casa ce le porto io e per niente al mondo le ripasserò a Agnesi!

Fortunatamente lungo il tragitto alcuni miei compagni di cammino mi aiutano nel mio intento, altrimenti col cavolo che ce l’avrei fatta.

E la sera per cena: patate. Mmmmmhhhhhh quanto sono buone!!!!

 

Simona5

MBULA

E’ l’anima della casa. Orfana, fu adottata da babbo e mamma, che le fecero continuare gli studi e adesso è in attesa dell’occasione per diventare infermiera. E’ la testa, le gambe e le braccia della casa, nel senso che organizza, cucina e soprattutto comanda le più piccole, ma i lavori più duri e pesanti sono suoi: spaccare la legna andare a prendere l’acqua al pozzo, andare a fare la spesa, ecc

Quando tornavamo stanchi dal lavoro, sapevi dove andarla a trovare: seduta sul suo basso panchetto di legno grezzo davanti ad un braciere o al fuoco con sopra una pentola; oppure se pioveva o era freddo, era nella stanza che noi chiamavamo del fumo perché aveva un fuoco in terra e nessuna canna fumaria, per cui il fumo invadeva la piccola stanza e l’unico modo per resistere era stare seduti sui bassi panchetti; eppure non bastava, dopo al massimo un quarto d’ora, dovevamo uscire con gli occhi rossi lacrimanti e la gola irritata dall’odore acre del fumo. Mbula invece restava e non faceva altro che ripeterci “pole (mi dispiace)”. E dal quel suo sacrificio quotidiano, uscivano le pietanze che noi senza troppi complimenti, spolveravamo a cena.

Un giorno Mbula si ammalò, le venne il raffreddore con un gran mal di testa. Noi europei preoccupati, pensammo di curarla con le nostre medicine e le demmo una bustina di nimesulide, con la convinzione che di lì a poco il mal di testa le sarebbe passato. Invece continuò per tutta la sera e il giorno dopo era febbricitante: ma ciò non bastò a tenerla lontana dai suoi “doveri”; si alzò presto per andare a spaccare la legna per il fuoco ( che io non riuscivo a spaccare tanto il legno era duro e tanta precisione occorreva per dare i colpi al ciocco), accendere il fuoco, e preparare la colazione. Poi venne con noi alla scuola poiché lì vicino c’era il dispensario per fare il test dal quale risultò che era affetta dal tifo, in forma curabile; si fece dare le medicine per curarlo e poi venne ad aiutarci a scuola. Quel giorno facevamo saltare l’ennesimo pavimento, naturalmente con picconi e mazza e tanto olio di gomito; eravamo in 5 perché non avevamo sufficienti attrezzi per tutti e cioè 2 picconi, 1 mazza, 1 pala e 2 carriole sgangherate. Ci alternavamo nell’uso dell’attrezzi perché il lavoro era faticoso: chi aveva usato il piccone, prendeva la pala, e chi aveva usato la mazza, passava alla carriola. Mbula arrivò dopo essere passata dal dispensario ancora dolorante, ci chiese se poteva aiutarci e noi le cedemmo il piccone con la convinzione che, dato il suo stato di salute, da lì a poco ce lo avrebbe reso stremata; invece cominciò con gran lena a spaccare e a sollevare pezzi di cemento più grandi di quelli che noi avevamo fatto e continuò fino a che non finimmo il lavoro. Poi ci passò l’attrezzo e se ne ritornò a casa (a 4 km di distanza a piedi naturalmente), sicuramente a preparare il pranzo e riassettare.

Era l’unica in casa con cui potevamo parlare fin dall’inizio perché sapeva l’inglese. Un inglese strano per la verità, fatto di parole che finivano con l’aggiunta di una “i” (così come noi aggiungiamo una “e” alle parole straniere), ma soprattutto con un’intercalare strano, con accenti diversi, tanto che Rebecca, figlia di genitori inglesi, stentava a capire.

Fu anche la prima ad abituarsi alle nostre affettuosità europee; non dimenticava mai, ogni mattina e ogni pomeriggio quando ritornavamo dal lavoro, di abbracciarci. Ed era buffo come lo faceva: noi ci abbracciamo e porgiamo la guancia per prendere e dare un bacio, lei invece ci appoggiava la testa sulla spalla, così che ci ritrovavamo a darle un bacio sul collo. Sembrava quasi un bacio fra amanti, ma lì in Africa non c’è malizia e il sesso è relegato nella sfera personale e privata: non se ne parla e anzi è maleducazione compiere i gesti più casti come tenersi la mano o baciarci.

Qualche giorno dopo, Mbula, che nel frattempo si era ristabilita, ritornò con noi perché doveva comprare della carne e ne approfittò per ritornare alla scuola dove noi lavoravamo; era chiaro che le piaceva stare in nostra compagnia, vedeva poca gente là a casa e in ogni caso, più vecchi e sicuramente non bianchi. Quel giorno pitturavamo un’aula, passavamo cioè del “choka” (una specie di intonaco filtrato dalla sabbia)sulle pareti intonacate con il cemento, affinché il muro non assorbisse troppa tempera. Lo davamo a pennello (in Africa non esitarono plafoni, ma solo larghe pennellesse con setole corte e scadenti) e salivamo sui banchi per arrivare più in alto possibile, poi qualcuno, con una scala a pioli molto precaria e bassa, avrebbe completato la copertura nella parte più alta. Mbula quindi prese la pennellessa, salì su un banco e cominciò a pitturare, con una mano dietro la schiena e l’altra che si muoveva abilmente sulla parete.

Insomma, qualsiasi cosa facessimo, Mbula la sapeva fare meglio di noi

Durante la cerimonia del nostro battesimo kirangi, Mbula faceva anche parte del coro e del balletto con Kichiko e chiaramente era la più brava .

La sua disperazione era Stefano, il quale la prendeva sempre in giro, ma lei aveva imparato con pungente cortesia, a controbattere. Era sempre pronto a infastidirla facendole il solletico o altri dispetti che lei sopportava con estrema pazienza. Ma la sua pazienza era veramente messa alla prova con il cibo: Stefano era un divoratore di tutto ciò che Mbula cucinasse, era sempre lì, con la manina a rubarle dalla pentola qualsiasi cosa gli passasse sotto gli occhi. Era goloso di Mandasi (delle specie di bomboloni triangolari senza crema ovviamente), di noccioline, di chips (patatine fritte), delle piccole crocchette di mais e spezie e di qualsiasi altra cosa fosse commestibile. Mbula, poverina che era anche molto equa e non voleva che Stefano mangiasse più degli altri, era costretta a nascondere quello che cucinava: ma talvolta non bastava, Stefano riusciva a trovarla ugualmente.

Un giorno che in casa stavano preparando il pombe (bevanda a pochissima gradazione alcolica che se bevuta in grandi quantità ubriaca) e noi sbucciavamo le arachidi per tostarle, Stefano cominciò a bere il pombe non ancora fermentato e a mangiare arachidi non ancora tostate, malgrado tutti gli dicessero di non farlo perché gli avrebbero fatto male. E così avvenne, gli venne la diarrea e Mbula, finalmente, ebbe materia per vendicarsi e prenderlo in giro.

 

Mwinjo (dal sito rafiki)

Il Sogno di Mwinjo

Un sogno che è diventato realtà. Avere un’esperienza in Africa, nel mio caso in Tanzania, significa andare a conoscere il popolo che sta lì, cercando di apprendere la sua cultura, mostrando rispetto e senza voler per forza lasciare una traccia del nostro passaggio.

Quest’estate sono riuscita a realizzare il sogno che avevo dentro di me da quando sono arrivata in Italia. Ciò che desideravo era di tornare a casa mia con tanti amici italiani per far loro conoscere il mio mondo. E’ così diverso da qui dove c’è tutto ma dove la felicità dura sempre così poco tempo o dove addirittura felici e contenti non lo si è mai.

Questo però non vuol dire che in Africa si va a cercare la felicità perché la felicità sta dentro di ognuno di noi. L’Africa semmai ci aiuta a ritirare fuori il buono e le verità che abbiamo dentro di noi per regalarli a quelli che soffrono per tanti motivi. Per la malattia, la fame, la guerra… Solidarietà significa anche andare a vedere coi nostri occhi e toccare con le nostre mani.

Personalmente l’esperienza è stata molto bella, abbiamo lavorato con le autorità didattiche ristrutturando tutta una scuola e comprando i banchi per tutti e seicento i bambini. Con loro e gli insegnanti abbiamo stretto amicizie molto forti ed al momento di lasciarci per il ritorno piangevamo tutti moltissimo.

A me piacerebbe ritornare in Africa non solo per le vacanze ma sempre con tanti amici. Gli stessi o altri, ma tutti giovani italiani desiderosi di dare aiuto a chi ha bisogno di noi e interessati a comprendere un mondo diverso vedendo e toccando direttamente.

L’Africa è così difficile da capire, il ritmo della vita della gente dipende tutto dalla luce del sole. La gente si sveglia con il sole e quando tramonta va a letto perché si insegna che Dio ci ha regalato la luce per lavorare e pregare, ma quando viene il buio si va a letto per riposare e per pensare a tutto quanto si è fatto nella giornata. Dormire e meditare.

Vi dico anche che l’Africa è così povera che non c’è niente. Però dà tutto ed a tutti di più.

Vi invito tutti in Africa, in Tanzania, così possiamo affrontare o condividere i suoi problemi insieme.

Vi dico asante, grazie, una parola così semplice che per me come africana ha un significato molto importante, quindi cerchiamo di usarla ogni tanto. Anche quando non ci vuole.

 

 Nadia (da sito rafiki)

Safi

Ciao,

sono tornata da poco e solo ora sto rientrando a pieni ritmi nella vita di tutti i giorni… quella che facevo prima… anche se non proprio…

Sto ancora metabolizzando il viaggio ma ho voglia di raccontare almeno un po’ dell’Africa che ho visto, in un modo che non è proprio nel mio “stile sdrammatizza tutto”

Appena scesa dall’aereo ero piena di idee sull’africa che facevano molto “Educational Channel”, ma varcata la soglia dell’aeroporto sono stata completamente invasa da abbracci di persone festanti che io non avevo mai visto. Mi sono accorta di essere in un mondo che non era il mio, che dovevo scoprire totalmente, un mondo che aveva come colonna sonora quella di Indiana Jones!!!

Occhi sgranati dal finestrino, sguardo da furetto curioso, sorriso stampato sulla bocca e qualche gesto per abbozzare una comunicazione con i ragazzi africani del pulmino…non c’è tempo per pensare.

Le impressioni e le sensazioni si accavallano, i ragionamenti si accumulano nella mente senza combinarsi in una visione coerente. Ci sono grandi contraddizioni a Dar es Salaam: case di fango sempre aperte vicino alle case barricate dei ricchi ; strade asfaltate e strade polverose; gente che vagabonda sui bordi delle strade e gente che cerca di venderti cibo negli ingorghi; grossi cartelloni pubblicitari di Coca cola e telefonini Samsung, rifiuti sparsi lungo la strada (non ci sono cassonetti); bambini in divisa che vanno a scuola e bambini che giocano sporchi con i pneumatici; programmatori di computer e masai che rifiutano completamente la cultura occidentale (poco da rimproverargli); quale delle due afriche è quella vera?

Poi il viaggio verso il villaggio e la scoperta della vera Africa:

l’africa delle strade polverose e dissestate

l’africa dei bambini che corrono verso il tuo pulmino e ti gridano “jambo!” con il pollice alzato

l’africa delle capanne di fango con i tetti di lamiera

l’africa della terra rossa e della notte nero pece

l’africa delle donne con secchi in testa e un fagotto dietro la schiena con dentro un bambino,… soffocherà : )

l’africa della polvere

l’africa dei baobab e dei frutti tropicali che per una volta ti costano poco

L’africa delle chiese occidentali innalzate in nome di quel Dio che… dove è?

L’africa degli spazi sconfinati, che racchiudono enormi ricchezze, ma anche grande povertà

Poi l’esperienza di 3 settimane nel villaggio di Haubi ospiti di una famiglia meravigliosa che ci ha trattato come suoi figli…e la nostra iniziazione nella tribù dei Warangi. Una capra sgozzata e trasformata in braccialetti pelosi e sanguinanti per noi, prima guardati con molta diffidenza e un “pizzico” di disgusto, poi gelosamente custoditi. Canti , danze, tamburi e da oggi… Salve io sono Njuu (nocciolina).

Nel villaggio un pozzo con acqua pulita è una conquista, una latrina equivale a un salto tecnologico, un dispensario medico fa la differenza fra la vita e la morte per decine o centinaia di persone. I bambini portano l’acqua sulla testa e provi un senso di invidia visto che riescono a portarne molta più di te e soprattutto SENZA MANI…i bambini con i loro grandi occhi neri e il naso a patata, con i capelli a pois a mo’ di cespuglietto, che ti toccano i capelli e ti spiano mentre ti appisoli; con il moccico al naso ma che non piangono mai… forse sono il volto più bello dell’africa.

I maestri molto severi con le loro classi di 80 alunni e molto ossequiosi verso di te che (anche se hai cambiato pochi euro e sei uno studentello perennemente al verde) hai molti più soldi in tasca di quello che loro guadagnano in un mese. E questo senza volerlo te lo fanno pesare.

Nel villaggio il tempo non passa e l’unica sensazione di tempo che si percepisce sono quei dieci minuti in cui il sole tramonta velocissimo per lasciare spazio a una notte piena di stelle sconosciute e al silenzio. Ma dove è il Grande Carro che mi dà sempre tanta sicurezza ? : )

Un mese fatto di essenzialità, fatto di patate riso e banane, di gite di gruppo al pozzo, di vernice anche sulla punta del naso e di turni di lavaggio piatti con la torcia. Mi sono divertita molto!

Anche la loro vita quotidiana è essenziale, senza svaghi, senza pub, senza hobbies, senza libri, senza negozi, senza sapere cosa succede al di la del villaggio, dove ci si ferma a salutare in continuazione e per dieci minuti di fila e dove anche se va tutto male si dice sorridendo “Safi” (trad. meravigliosamente).

All’inizio dà fastidio vedere che c’è poco spirito di iniziativa, che non esistono le coccole e che i bambini vengono lasciati a se stessi. Sai che il tempo che hai per aiutarli è poco eppure, trovano sempre il modo di perderne: non conoscono la fretta. Sei preso spesso dalla voglia di cambiare tutto di dar loro tutto ciò che noi abbiamo in Italia, ma è giusto…?

Asfaltiamo la strada, ma che senso ha, non potrebbe essere riparata e poi nel villaggio c’è una sola macchina

Portiamo la corrente elettrica ovunque, ma che senso ha, le case sono di fango e la agente avrebbe si e no i soldi per comprarsi una lampadina

Portiamo almeno l’acqua nelle case…ma come e poi molta è contaminata

I soldi che abbiamo portato non sono molti ed è difficile decidere le priorità. Abbiamo deciso di cominciare da scuola e sanità perché sono le necessità fondamentali. Abbiamo restaurato una scuola scoprendoci muratori; abbiamo portato penne, quaderni e materiale didattico. Ma sulle montagne ci sono bambini che scrivevano con il dito sulla sabbia perché i loro genitori non avevano soldi o li spendevano tutti in pombe (è la loro bevanda alcolica), come faccio a raccontarlo senza cadere nel patetico ?

Ciò che contraddistingue gli africani è la voglia di vivere, di essere felici, di gioire, nonostante le difficoltà. Non ho visto visi stanchi o depressi, solo visi sorridenti e sereni. Questo è il ricordo più vivido della Tanzania.

Sono tornata a casa contando i giorni che mancano al prossimo viaggio perché quando qualcosa ti fa sentire vivo, lo ricerchi sempre…

E come direbbe il facocero del Re Leone: “ Hakuna matata” (traduzione in kiswahili di “senza problemi”)